| Quei sei minuti ancora da spiegare Ecco gli indizi chiave contro Alberto "Sembrava si muovesse come se sapesse che lì c'era un cadavere"
dal nostro inviato PIERO COLAPRICO
VIGEVANO - Lunedì 13 agosto, lunedì 24 settembre. Quarantatré giorni per tornare là dove tutto è cominciato, nel lato oscuro di Alberto Stasi. Nelle contraddizioni, nelle lacrime e negli errori di questo giovane di 24 anni, accusato di aver ammazzato con ferocia la fidanzata, Chiara Poggi, dopo quattro anni di apparente amore. Ieri lo hanno fermato, ma era sospettato sin da subito: da quando, poco prima delle 14 del giorno dell'omicidio, dà l'allarme. E comincia a spiegare tutte le cose che (non) ha fatto: "Ero spaventato, non mi rispondeva al telefono, allora sono entrato nella villa. Ho visto il sangue, il volto di Chiara era pallido, sono fuggito, sono salito in macchina e arrivato in caserma", racconta.
"Non ti sei avvicinato per sapere se era viva o morta? Non l'hai toccata? Era la tua ragazza...", obiettano i marescialli.
"No, sono arrivato al secondo gradino della scala, ho capito che non c'era nulla da fare, ma non l'ho uccisa io, mi dovete credere".
Difficile. Alberto viene sentito per diciassette ore il primo giorno. Per altre otto il venerdì successivo. Riceve l'avviso di garanzia per omicidio aggravato dalla ferocia il lunedì 20 agosto, due giorni dopo il funerale di Chiara Poggi, quando si va a sedere vicino ai genitori della vittima, e così diventa una specie di metafora del male che ci sta accanto. Assicura agli amici: "Mi sento crocifisso, ma sto collaborando con la giustizia".
Collaborare è una parola grossa. Viene risentito ancora il 22 agosto, al secondo piano della Procura, con la pm Rosa Muscio che gli chiede a brutto muso: "Se è stato lei lo dica, perché le conviene": altre otto ore di botta e risposta, con l'uscita quasi a mezzanotte, il volto pallido, il fisico stremato. Ripete solo: "Non c'entro". E quando a fine agosto la mamma di Chiara decide di andare al cimitero, dopo aver parlato con Alberto, è il ragazzo che s'intrufola, chiede ai genitori della vittima il permesso di accompagnarli e si mostra spaurito e angosciato. I carabinieri si guardano come se assistessero alla recita di un dilettante. Come sanno gli psichiatri, il dolore che uno mostra a volte è un dolore profondo e sincero, ma non è per gli altri, è per se stesso: per che cosa uno ha fatto, per che cosa gli capiterà se verrà scoperto.
Viceversa, il sorriso di Chiara, quello della solita foto, e il suo sguardo aperto, erano davvero lo specchio dell'anima di una brava ragazza. Senza ombre, senza segreti, senza una doppia vita: tutta famiglia, lavoro e - una volta a settimana - il fidanzato, di due anni più giovane.
Nella ricostruzione dei carabinieri, Chiara apre in pigiama la porta di casa a uno che conosce. Chiara non si difende, tanto che non ha segni sulle braccia. Chiara, dopo una discussione, viene colpita prima da dietro, poi sulla fronte a destra, sulla mascella a sinistra e, ancora e ancora, dietro, nella zona del cervelletto. Vengono controllate decine di persone, interrogati quasi duecento abitanti di Garlasco, Vigevano e Milano, ma non emerge niente di nuovo, di curioso, di inatteso.
Non si sfugge alle nuove regole delle inchieste post-Dna. Ogni parola di testimoni e sospettati resta dunque "cristallizzata" e sospesa nel tempo. I verbali e i computer si prendono una pausa. E invece, uno dopo l'altro, ecco sfilare gli oggetti, abiti, unghie, capelli, sangue, sudore, un intero piccolo mondo viene inghiottito dai laboratori dei Ris di Parma.
Sono i tecnici a interrogare le cose, finché a metà della settimana scorsa emergono alcune tracce di sangue sui pedali di una bici usata da Alberto Stasi. La notizia, segretissima, circola tra gli investigatori, sbeffeggiati dalla disinformazione dei programmi tv. Di chi è il sangue? L'attenzione si concentra sul Dna.
Perché sono le tre gli indizi che mettono in profonda crisi la posizione processuale di Alberto Stasi. Innanzitutto, il primo oggetto che parla ai Ris sono le sue scarpe, quelle che Alberto indossava quando - così assicurava - entra nella villa della fidanzata. Gliele sfilano i carabinieri il 13 agosto: sotto non c'è la minima traccia di sangue. Ma come ha fatto Alberto a vedere la fidanzata senza sporcarsi? Non avrebbe potuto.
Poi, ci sono i sei minuti intercorsi tra la sua ultima telefonata a Chiara e l'allarme al 118. Alberto dice di essere entrato in casa e poco dopo uscito. Ma sei minuti sono un tempo lunghissimo, se uno non fa niente, non tocca, non controlla se la vittima respiri ancora. Alberto, insomma, mente sul suo ingresso in quella casa per dare l'allarme. "Si muove come se già sapesse che c'è un cadavere", dicono i detective, impegnati negli altri controlli, poco utili.
Perché i vari oggetti sequestrati non rivelano l'arma del delitto. Le tracce organiche sulla scena del crimine appaiono confuse. Il computer sul quale Alberto avrebbe smanettato per la sua tesi non è stato ancora aperto dai tecnici. Il fatto che non ci siano tracce della sua arrampicata sul muro della villetta non è determinante. Ma - ecco finalmente il terzo indizio - il sangue sui pedali. Sì, c'è: ed è di Chiara. C'è il Dna della ragazza. E come è finito il sangue di Chiara su una bicicletta usata da Alberto? Alberto forse non sa che, quando i giudici ritengono una prova logica, si può finire all'ergastolo anche per una dimenticata, piccola, misera macchia di sangue.
(25 settembre 2007)
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